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Pubblicato su politicadomani Num 92-93 - Giugno/Luglio 2009
Anni '60, la grande migrazione sposta dal Sud al Nord d'Italia braccia e cervelli: è il depauperamento del Sud. Anni '90, il saldo fra chi parte e chi torna è pari a zero: il Sud può sperare di crescere ancora. Dieci anni dopo la storia si ripete. Dal 2000 al 2007 il Sud non ha creato più occupazione, il Nord sì, e l'esodo è ricominciato. Si muovono i migliori, i più poveri, quelli che non hanno solide relazioni sociali e politiche. Sono soprattutto giovani (60%) uomini (75%) che trasferiscono il domicilio ma non la residenza perché, in fondo, sperano di ritornare.
In "Nuove migrazioni. Il trasferimento di forza lavoro giovane e qualificata dal Sud al Nord", di Gianfranco Viesti (Università di Bari), risulta che nel 1999 si sono trasferite dal Mezzogiorno al Centro-Nord 160mila persone e che solo 84mila hanno compiuto il percorso inverso. Un saldo negativo di 77mila unità che è continuato negli anni successivi. È dalla Calabria che si parte di più (4,8 persone ogni mille), poi dalla Campania (3,9) e dalla Basilicata (3,1). Ci sono aree in cui le migrazioni sono così rilevanti rispetto alla popolazione residente da determinare veri e propri spopolamenti. Si scappa dal Sud come negli anni '60. Nel quinquennio 1996-2001, dice lo Svimez (istituto di analisi e ricerca sullo sviluppo industriale del mezzogiorno) le migrazioni interne verso il Centro-Nord hanno prodotto saldi negativi di 100mila giovani fra i 25 e i 29 anni e di 88mila fra i 20 e i 24 anni. Cinquant'anni dopo la grande emigrazione di massa, il Mezzogiorno si ritrova esattamente al punto di partenza.
Il fiume di denaro che si è riversato sulle regioni meridionali per effetto delle politiche comunitarie e pubbliche, si è prosciugato in mille rivoli senza produrre risultati apprezzabili. Nel girone dei poveri d'Europa (quello che l'UE classifica come "zone Obiettivo 1") il meridione è ultimo fra gli ultimi: viene dopo il sud della Spagna, la Grecia, la Germania dell'Est, il Portogallo, l'Irlanda. Tutte regioni che, con un tasso di crescita del 4,9% (Spagna), del 5,5% (Irlanda) e del 6,2% (Grecia), fra il 2000 e il 2007 sono cresciute molto di più della Campania, della Calabria e della Sicilia, cresciute solo del 2%. Eppure il Sud è stato ed è per tutti i governi la classica gallina dalle uova d'oro, arrivando perfino a finanziare con le risorse destinate al suo sviluppo la copertura necessaria per l'abolizione dell'Ici.
L'intero paese è bloccato da anni, dice Luca Bianchi direttore di Svimez, ed è incapace di fare le riforme. Gli interventi dei governi, da Roma in giù, hanno seguito logiche miopi e localistiche. Altra falla è la mancanza di progetti seri e coordinati verso cui indirizzare i fondi europei disponibili. Inoltre, poiché a distribuirli ci sono gli enti locali, molte risorse sono state usate per controllare il territorio. Come nella società feudale.
Chi auspica il federalismo e intanto si prepara a costruire una lega che governi il Sud, non fa che perpetuare il peggiore feudalesimo, quello intriso di mafia, di cui il meridione deve assolutamente liberarsi se vuole risorgere.
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